Mobbing in Italia. Violenza bianca di nuovo a Taranto 3

Di recente la stampa, registrando drammatici fatti di cronaca, è intensamente tornata ad occuparsi del fenomeno delle morti bianche; espressione questa utilizzata ad indicare il decesso di lavoratori nello svolgimento delle proprie mansioni.

Ma v’è, se non silenzio, certo una tendenziale sottovalutazione di un altro fenomeno che viene profondamente ad incidere sulla e nella vita dei lavoratori, oltre che delle loro famiglie. Si tratta del mobbing; termine inglese questo con cui anche in Italia sinteticamente si indica una serie di azioni poste in essere nei confronti di un lavoratore in un lasso di tempo più o meno protratto da parte del suo datore o anche dei suoi colleghi allo scopo di prostrarlo sino addirittura ad indurlo alle dimissioni o comunque ad espellerlo dall’organizzazione lavorativa in cui è inserito. Se riguardo ai lavoratori la morte viene connotata dal colore “bianco”, rispetto agli stessi soggetti la violenza a base di tal ultimo fenomeno non può non essere connotata dallo stesso colore: il bianco.

Quel che in questo fenomeno spaventa, ma forse non abbastanza da muovere a specifici interventi legislativi di tutela, che in effetti ad oggi mancano, è la civile malvagità. Si, perché nel mobbing ad agire contro il lavoratore è una o più persone apparentemente civili.

E se tale fenomeno viene poi posto in essere in contesti religiosi? Certamente lo spavento cede allo sgomento o a ben più profondi sentimenti di raccapriccio!
I fatti di cronaca ci hanno presentato una sorta di livellamento nei ranghi sociali e negli àmbiti di perpetrazione della moderna brutalità. La nefandezza giunge a manifestarsi in crimine anche, purtroppo, in luoghi sottoposti all’autorità religiosa o comunque pervasi dall’aura della sacralità. I casi sono tanti, anche soltanto a limitare il pensiero agli ambienti religiosi prevalenti in Italia, vale a dire quelli cattolici.

Al riguardo si può citare lo storico caso del convento e del paese di Mazzarino, teatro di estorsioni negli anni cinquanta in terra siciliana, sino a giungere ai numerosi casi di seminari e centri di recupero per giovani in difficoltà, scenario di abusi sessuali e di pedofilia in questi nostri ultimi anni in terra italiana e americana. Non ci si può certo schermirsi sostenendo, come invece qualcuno ha fatto, che vicende di tal specie siano favorite o costruite dalla “lobby ebraica radical chic” o dalla massoneria o dal laicismo radicale o dalla magistratura anticlericale.

Se non amore di verità, di quella Verità che per fede professano, almeno onestà intellettuale e senso di cautela e giustizia vorrebbero che i vertici delle istituzioni ecclesiastiche riconoscessero apertamente che la fallacia degli uomini, anche di quelli che condividono le sacre vesti, si manifesta pure negli àmbiti posti sotto la propria vigilanza, cura, gestione. E se misfatti o alterazioni portano a scuotere enti e istituzioni religiose, lo stesso senso di cautela e giustizia vorrebbe che i medesimi vertici ecclesiastici intervenissero rimuovendo le cause della crisi, riparando il malfatto e prevenendo l’insorgere dei fattori di pregiudizio; e ciò prima che lo scandalo stracci non solo le loro vesti ma la stessa fede.

Ombre di un concreto deterioramento della corrispondenza ai superiori fini e principi della Chiesa cattolica paiono ora stendersi su strutture di questa o ispirate da questa presenti in terra di Taranto. Taranto, una terra già balzata ai disonori della cronaca negli ultimi anni per gravose situazioni.

V’è il dissesto finanziario dell’Amministrazione comunale, con un debito di 357 milioni di euro, con arresti, non però del sindaco Rossana Di Bello, e 33 indagati, tra funzionari ed ex amministratori, per falso, abuso di ufficio, truffa, peculato, corruzione etc.

V’è il critico inquinamento aereo di origine industriale, prevalentemente dallo stabilimento siderurgico ILVA, o, secondo alcuni, di concorrente e non trascurabile fonte veicolare, con un notevole incremento, negli ultimi 30 anni, della mortalità per cancro.

V’è l’inquietante problema della sicurezza della incolumità e della tutela della salute dei lavoratori dello stesso stabilimento ILVA, con la significativa ricorrenza di infortuni e morti bianche. Ed ora, come se tali attacchi ad essenziali beni della collettività, quali appunto la cosa pubblica, l’economia sostenibile, l’ambiente, la salute, peraltro posti in essere da alti responsabili degli enti coinvolti, non bastassero, la Terra Jonica deve registrare la mancata resistenza di strutture ecclesiastiche a tener indenni coloro che vi operano dall’odioso fenomeno del mobbing.

Nel contesto lavorativo della città dei due mari, in realtà, la violenza bianca fece la sua prima clamorosa comparsa una decina di anni fa e in ambito industriale. Nel maggio del ’97, una dozzina, poi diventata una settantina, di
impiegati “indesiderati” del centro siderurgico ILVA furono confinati per quasi un anno in una palazzina inutilizzata e fatiscente, quella che ospitava gli uffici del laminatoio a freddo, la cosiddetta “palazzina LAF”, all’interno dello stesso centro siderurgico, venendo costretti all’inoperosità e limitati nella comunicazione con l’esterno.

In tal modo si voleva imporre a questi lavoratori di accettare il declassamento contrattuale da impiegati a operai, altresì platealmente mostrando a tutti gli altri lavoratori dello stabilimento la consistenza del potere datoriale. Ai lavoratori la dequalificazione continuativa, con fini punitivi, comportò serie conseguenze sul piano psichico e fisico. Agli autori, undici tra dirigenti e quadri del siderurgico, tra i quali Emilio Riva, presidente del Consiglio di Amministrazione dell’ILVA, e Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, la stessa situazione comportò l’imputazione del reato di tentativo di violenza privata, cui successivamente si accompagnò quella per frode processuale a ragione del mutamento dello stato dei luoghi compiuto nella palazzina LAF, onde farla apparire più vivibile, nel periodo compreso fra la notifica del decreto di ispezione e la sua esecuzione da parte della magistratura. L’Autorità giudiziaria avviò le indagini nei primi mesi del ’98.

Alla fine del ’99 si iniziò il processo, che, in primo grado, dopo due anni, il 7 dicembre 2001, giunse a sentenza con condanne tra i due anni e tre mesi ai nove mesi di reclusione. In appello, il 10 agosto 2005, le condanne furono confermate, con pene leggermente ridotte rispetto a quelle precedentemente inflitte. La Cassazione, con sentenza 8 marzo 2006 – 21 settembre 2006, ha confermato la decisione di secondo grado. Si tratta di un emblematico e famigerato caso di mobbing, tra i più citati negli studi, non soltanto italiani, su tale patologia organizzativa.

Nel contesto lavorativo della città dei due mari il mobbing sembra aver fatto di nuovo comparsa negli ultimi tempi e in un nuovo àmbito, quello ecclesiastico e, in particolare, cattolico; nuovo almeno per quel che si sa.

Risultando al momento superflui ulteriori dettagli, inoppugnabile certezza v’è su alcune circostanze. Una donna, sin dal 1986, all’età di ventitré anni, è impiegata in un ente di formazione istituito e gestito nella provincia di Taranto dalla Chiesa cattolica. Svolge innumerevoli mansioni e si spende per la migliore organizzazione dell’ente dedicando a questo tredici anni della propria vita, con grande e manifestato apprezzamento dei responsabili, dei docenti e degli studenti.

Dal 1999, nello stesso ente vengono a determinarsi situazioni che, sin dagli ultimi mesi del 2004, sulla persona della lavoratrice, ormai madre di famiglia, con marito e due figli appena adolescenti, si conclamano in gravi lesioni consistenti in disturbi, anche somatoformi, da panico e da sindrome post-traumatica da stress nonché in depressione grave; il tutto determinato da una continua situazione occupazionale disfunzionale caratterizzata da sovraccarico di lavoro e da costrittività organizzative ed attribuibile ad un fenomeno palesemente di mobbing lavorativo e relazionale, come accertato da specialisti in materia e da alcune delle più importanti e maggiori cliniche del lavoro in Italia.

Nel marzo 2005, dopo diciotto anni di lavoro nello stesso ente ecclesiastico, la lavoratrice, madre di famiglia e ormai quarantaduenne, viene licenziata. Le lesioni vengono diagnosticate con carattere permanente per un grado non inferiore al 71,20 per cento; si, proprio settantuno e venti per cento. A parere degli specialisti, pur con appropriate terapie la malattia potrebbe persistere per non meno di cinque-sei anni circa; si, proprio cinque-sei anni almeno di malattia, nell’ipotesi più fausta; ma residuando sempre esiti permanenti difficilmente reversibili.

Si è così distrutta una persona e, con questa, anche la sua famiglia.

E la terra di Taranto, già martoriata dalle disfunzioni sia del potere politico-amministrativo sia del potere economico, da questo fatto risulta ancor più incisa e, questa volta, per effetto di altri àmbiti.

Sulla vicenda, che è emersa appunto alla fine del 2004, il potere giudiziario sta ad oggi ancora alacremente operando, tanto alacremente, si auspica, quanto l’impenetrabilità del silenzio che assordantemente finora sul caso ha dominato.

L’auspicio del buon e intenso operare non può non essere alimentato!

D’altro canto, cosa può fare l’individuo, vittima o non ancora vittima, innanzi al delineato dissesto se non riporre fiducia nelle superiori e imparziali istanze dello Stato di diritto, aspettandosi e, se del caso, reclamando un agire senza timore e tremore?

Scritto il 31 Marzo 2008 da Pico della Tarantola

Da: Le cose che non vanno.com

Andrea Cometa

Capogruppo di Sud in Movimento.
Consulente informatico ERP, esperto in software libero. Brigante moderno «Cosa scelgo io tra il dover andare via e il voler restare?
Non ho alcun dubbio. Io resto qui al Sud, e non perché so-
no un perdente o un rassegnato, ma perché restare è mol-
to più difficile che andarsene. Io resterò qui»

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3 thoughts on “Mobbing in Italia. Violenza bianca di nuovo a Taranto

  1. Anonymous Apr 4, 2008 09:18

    bel post! bravo

  2. Anonymous Apr 4, 2008 17:13

    Non so se effettivamente mi piace questo post…non so…forse è troppo lungo, troppo tecnico.
    La parte finale è sicuramente la più interessante. Ovvio,chè è scandaloso ciò che è capitato alla signora 42enne,non è affatto giusto che le sia accaduto ciò…assurdo.Credo che bisognerebbe far qualcosa, una protesta, pubblicare più cose sull’accaduto in modo che le Autorità Competenti si muovano di più a tal proposito.
    In ultimo,ma non meno importante, non sapevo del caso mobbing dell’Ilva: agghiacciante è dire poco…e come spesso accade nella realtà italiana, la legge non ha punito abbastanza i colpevoli!

  3. Anonymous Ott 17, 2008 16:29

    http://www.mobbing-sisu.com/poesie/tu-sai.htm

    TU SAI

    Tu sai con quanto stillicidio,
    in un malsano posto di lavoro,
    si viene continuamente distrutti.
    Mai, non saprete mai come m’illuminano
    le sofferenze viste causare…

    Un sentiero silenzioso cupo, pieno di insidie
    e di trabocchetti architettati, predisposti
    dalla carogna infame, nella vorticosa vita,
    laddove il sentiero viene sparso da mille veleni,
    simile a una fogna satura di un’aria pestilenziale…

    Ferite che dolgono e bruciano mai rimarginate.
    Ascolto infondo al cuore sino a sentire che la tua anima
    trabocca di un’indicibile sofferenza;
    Ma ancora viva, luminosa, amorevole
    e pur capace di sorridere, cantare, scherzare.

    Vi è l’assedio fatto da tanto male fisico, morale,
    con il supplizio delle soverchierie.
    Non sei insensibile, ma è solo disgusto
    per tutto quello che in negativo il marcio,
    sadico ambiente vorrebbe ridurti.

    L’aria intorno è una morsa di un gelido abbraccio
    che procura malattia, brividi e tremori.
    Forse è vero che l’utile sta pure nel dolore,
    ma quando riemerge ogni giorno
    impassibile e vivo?

    Si ode il tempo stillare nella nebbia
    al di là del silenzio, dell’omertà,
    dell’iniqua censura giornalistica.
    Si dice che la gente non deve sapere,
    ecco perché il carnefice può continuare.

    (Giacomo Jim Montana)

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