“C’è un mondo dentro”, così recita lo spot di una massiccia campagna d’informazione pro Ilva messa in campo alcuni mesi fa dal gruppo Riva, che va dalla pubblicazione di foto paradisiache su riviste Ambiente e Sicurezza, fino all’Open Day (3100 visite in 2 giorni fra curiosi stuzzicati da specchietti per le allodole e parenti di dipendenti “gentilmente invitati”). Nel frattempo i chimici nominati dal Gip Patrizia Todisco effettuano due perizie, una ambientalista e l’altra epidemiologica, portando alla luce dati allarmanti, non sconosciuti ma sempre taciuti, facendo sgretolare come sabbia al vento l’immagine paradisiaca creata dalla massiccia campagna d’informazione pro Ilva. Il colosso accusa il colpo, sbanda, barcolla, le accuse sono gravissime: disastro ambientale.
Indagati otto dirigenti, il gip dispone il sequestro e quindi la chiusura dei sei impianti che costituiscono l’area a caldo. Il 26 luglio la tensione arriva alle stelle grazie a una notizia divulgata dai sindacati, i carabinieri sigillano gli impianti (tutto falso). Si aprono i cancelli, i sindacati invitano gli operai a bloccare la città mentre gli impianti interessati continuano a produrre e mezzi aziendali (senza targa) escono e organizzano barricate. La città è in ginocchio. Nessun comunicato, nessuna presa di posizione dai rappresentanti dei lavoratori, per una manifestazione in cui gli operai, con il benestare economico del padrone, ringhiano contro la magistratura e gli ambientalisti che sembrano mettere in pericolo il loro posto di lavoro.
Ma ancora una volta Taranto e i suoi cittadini stanno pagando il prezzo di cinquant’anni di scelte infami. Si è sempre saputo che l’Ilva inquinava e uccideva ma in moltissimi hanno colpevolmente taciuto. Dal Comune al Governo, dalla Regione alla Provincia: tutti avrebbero potuto e dovuto fare molto di più e a tempo debito. Anche chi doveva tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori all’interno della fabbrica ha preferito proteggere e tutelare i propri interessi, invece che quelli di coloro che ogni giorno hanno lasciato un po’ della loro vita dentro le tute da lavoro. Per non parlare di ciò che accade all’esterno: il territorio è ormai saturo di Diossina e Pcb.
Sud in Movimento si schiera dalla parte dei lavoratori ribadendo però alcuni principi cardine: il lavoro è un diritto, il lavoro sicuro per sé e per gli altri è un diritto perché la salute e la vita umana sono beni primari dell’individuo, la cui salvaguardia va assicurata in tutti i modi possibili. Bisogna però recuperare una “coscienza“ operaia indipendentemente da chi e da come ci rappresenta e occorre attribuire le responsabilità a chi in questi anni ha costruito imperi economici sfruttando le risorse ambientali di questo territorio e a chi nella politica è stato incapace di avvertire l’entità di un’emergenza sanitaria e ambientale senza paragoni nel resto d’Italia.
Bisogna obbligare Riva ad investire i miliardi di euro guadagnati sulla pelle dei Tarantini, per attenersi a tutte le prescrizioni che inevitabilmente saranno imposte dalla nuova AIA e/o dagli interventi della Magistratura. Anzi dovranno essere gli operai stessi, senza perdere il loro posto di lavoro, ad eseguire i lavori di bonifica e modernizzazione degli impianti. Dovranno loro stessi richiederli con tutta la forza che hanno in corpo, a pretenderli per il rispetto della loro salute e di quella di tutti i cittadini di Taranto. Le due ordinanze del Gip Patrizia Todisco non devono essere considerate una condanna per i lavoratori e per lo sviluppo del nostro territorio ma devono segnare una svolta epocale per la città di Taranto; devono rappresentare un input e un incipit per l’intero territorio, che ora sa tutto quello che c’era da sapere ed ha di fronte a sé un’occasione irripetibile: quello di riscrivere un futuro diverso e certamente migliore.